martedì, Dicembre 23, 2025

Linciaggio in Bangladesh: la prova fallita di Yunus

Dipu Chandra Das aveva 27 anni, un turno da 12 ore e uno stipendio mensile che basta a malapena a restare vivi. Lavorava nel tessile, cioè nel cuore del Bangladesh che esporta, produce per marchi internazionali, regge la globalizzazione cucendo pantaloni e camicie.

Poi, in fabbrica, una discussione si è trasformata in un’accusa: blasfemia. E l’accusa, in un Paese dove la folla è spesso più veloce della legge, è diventata sentenza. Lo hanno trascinato fuori, lo hanno linciato, legato a un albero, bruciato. Un supplizio pubblico, abbastanza feroce da non poter essere liquidato come “incidente” o “degenerazione”.

La cosa più inquietante, come sempre, è la parte che viene dopo. Le autorità hanno arrestato diversi sospetti; investigatori e forze speciali hanno detto di non avere elementi solidi per verificare ciò che Das avrebbe detto; e intanto la notizia ha fatto quello che fanno le notizie in un Paese in tensione: ha acceso paure, alimentato vendette, irrigidito identità.

Il linciaggio non è solo un crimine, è una tecnologia sociale. Funziona perché trasforma un uomo in un esempio e una comunità in un bersaglio. Serve a dire: qui la tua parola può ucciderti; qui il tuo nome, la tua fede, il tuo accento possono essere l’innesco.

Questo episodio arriva nel momento peggiore possibile, nel vuoto politico che il Bangladesh si porta addosso dalla caduta del vecchio potere e dalla transizione guidata dall’attuale governo ad interim. Nelle settimane di transizione, le forze di sicurezza faticano a contenere fiammate di violenza e disordine, e i gruppi più radicali tentano di approfittare del caos.

Non è un quadro nuovo: quando lo Stato è percepito come incerto, la folla diventa coraggiosa. E quando la folla diventa coraggiosa, le minoranze diventano fragili.

Qui entra la seconda storia, quella che per Diogene è forse la più interessante: Muhammad Yunus, l’uomo che il mondo ha imparato a chiamare “inventore del microcredito”, premio Nobel per la pace, volto globale della lotta alla povertà, oggi è il vertice dell’esecutivo transitorio.

Per molti, dentro e fuori il Bangladesh, Yunus doveva essere il simbolo di una ripartenza morale: un Paese che si ripulisce, che ricuce le fratture, che protegge i più deboli. È un’immagine potente, quasi perfetta per l’Occidente: l’economista umanista, il banchiere dei poveri, l’uomo delle donne nei villaggi, ora chiamato a rimettere ordine nello Stato.

Eppure la realtà che esplode con un linciaggio in fabbrica racconta l’esatto contrario: in questo momento i deboli non sono al sicuro, nemmeno nel luogo che dovrebbe essere più “disciplinato” e sorvegliato del Paese produttivo. Se un operaio può essere consegnato alla furia collettiva, se un’accusa non verificata può trasformarsi in un rogo, significa che la transizione sta fallendo proprio sul primo dovere di qualunque governo, anche ad interim: garantire lo Stato di diritto.

Non servono discorsi, serve capacità di impedire che la violenza diventi prassi. E finora, quella capacità appare insufficiente.

Il problema non è solo Yunus come individuo, né la sua biografia. Il problema è l’aspettativa che il Bangladesh potesse essere “salvato” da una figura moralmente prestigiosa, come se la reputazione internazionale potesse sostituire l’architettura dello Stato.

La povertà non si combatte solo con il credito; si combatte con istituzioni che funzionano, con polizie che arrivano in tempo, con magistrature che non lasciano spazio alla vendetta, con una politica che non usa le identità religiose come leva elettorale.

“Protest” by dblackadder is licensed under CC BY-SA 2.0.

Quando queste cose non tengono, i poveri tornano a essere solo corpi esposti. E Dipu Chandra Das è esattamente questo: un corpo esposto dentro una catena di produzione globale che richiede puntualità, efficienza e silenzio, ma non riesce a garantire neanche il minimo della protezione civile.

C’è poi un altro paradosso che rende la vicenda politicamente esplosiva: il Bangladesh è a maggioranza musulmana, ma la comunità induista è numerosa, radicata, parte storica del tessuto nazionale. Eppure da anni, a ondate, gli induisti vengono trattati come “altri” sospetti, talvolta come capri espiatori convenienti.

In tempi normali è un problema grave; in tempi di transizione diventa una strategia. Perché colpire una minoranza serve sempre a due cose: dimostrare forza e testare l’impunità. Se funziona, si allarga.

Il governo ad interim ha condannato la violenza e tende a presentarla come un problema generale di ordine pubblico, non come un attacco mirato contro una comunità. È una scelta comprensibile nella grammatica di chi deve tenere insieme il Paese: evitare di nominare la guerra religiosa, per non alimentarla.

Ma è anche il modo più sicuro per non affrontarla davvero. Perché se non riconosci la matrice, combatti solo i sintomi. E il sintomo, oggi, è che in alcune zone basta una parola come “blasfemia” per scavalcare ogni procedura e mettere la folla al posto dello Stato.

Il nodo è che Yunus non governa nel vuoto. Governa in un Paese polarizzato, con partiti che si preparano alle elezioni, con apparati di sicurezza che si muovono tra ordine pubblico e pressione politica, con un’economia stressata e con una società in cui la religione può essere usata come benzina. Proprio per questo, però, la delusione pesa di più: perché l’aspettativa sulla sua figura era quella di una discontinuità netta. Invece, nella vita concreta, si vede continuità di vulnerabilità.

Non è solo “mancanza di tempo” o “transizione difficile”: è un fallimento di priorità. Se la transizione non mette al centro la protezione delle minoranze e la deterrenza immediata contro i linciaggi, allora sta lasciando campo libero a chi vuole trasformare il voto in un plebiscito identitario e la paura in consenso.

E il punto politico finale è questo: una democrazia non si misura solo dalla data delle elezioni, ma da cosa succede ai più deboli mentre si arriva alle elezioni. Il Bangladesh può anche fissare un calendario elettorale, ma se nel frattempo una fabbrica diventa un patibolo e la folla diventa tribunale, quel calendario rischia di essere solo una cornice.

La sostanza è la sicurezza dei diritti, soprattutto per chi non ha protezioni: un operaio povero, una minoranza religiosa, una famiglia che teme perfino di partecipare a un funerale.

Il linciaggio di Dipu Chandra Das non è una notizia “locale” per specialisti dell’Asia meridionale. È un promemoria globale: le catene del valore producono ricchezza e precarietà insieme; i simboli della lotta alla povertà non bastano quando lo Stato arretra; e quando lo Stato arretra, la violenza trova sempre qualcuno da bruciare per ristabilire un ordine barbaro.

Yunus era atteso come argine. Oggi, almeno su questo fronte, appare più come un uomo che condanna dopo, mentre l’urgenza sarebbe impedire prima.

“Strike-NGWF-4” by dblackadder is licensed under CC BY-SA 2.0.

Leggi anche

Ultime notizie