giovedì, Novembre 27, 2025

Sud Italia, laboratorio di povertà d’Europa

In Europa dicono che “la povertà è una priorità”. Poi arrivano i numeri ufficiali di Eurostat e ci dicono un’altra cosa: la povertà, più che una priorità generale, è una geografia parziale. E quella geografia disegna benissimo la carta d’identità dell’Italia: un Paese che ama raccontarsi “ponte del Mediterraneo”, ma che nei fatti è un ponte spezzato, con il Sud piantato nella povertà strutturale e il Nord agganciato al convoglio dei virtuosi.

Nel 2024, ci dice Eurostat, il 16,2% della popolazione dell’Unione europea – 72,1 milioni di persone – è a rischio povertà. Una persona su sei. Percentuale identica all’anno prima, come se due decenni di crisi, recovery fund, Pnrr, pandemia e guerre non avessero insegnato nulla sulla fragilità sociale del continente. Ma è quando scendi dal livello “Ue-27” alla mappa delle regioni che la storia si fa riconoscibile, quasi domestica: perché il Mezzogiorno italiano non è solo messo male, è la zona rossa del rischio povertà in Europa.

Eurostat individua dieci regioni europee in cui più del 30% della popolazione è a rischio povertà. Dentro questo club ristretto, l’Italia gioca in casa: Calabria, Campania, Puglia e Sicilia sono tutte sopra la soglia vergogna. In Calabria il 37,2% dei residenti è a rischio povertà, più di uno su tre. Peggio, nell’Ue, fanno solo la Guyana francese e la città autonoma di Melilla. La Campania segue con il 35,5%, la Sicilia con il 35,3%, la Puglia arriva al 30,9%. Perfino la Sardegna, che nei racconti turistici è solo mare cristallino e agriturismi, ha un quarto della popolazione a rischio, il 25,7%.

È un Sud che non è più “in ritardo di sviluppo”: è il laboratorio europeo della povertà. Da anni, ma senza che nessuno lo dica a voce alta, per non rovinare le brochure.

Per capire quanto questo non sia un incidente di percorso ma una traiettoria di lungo periodo, basta guardare a come è andato il reddito reale pro capite delle famiglie negli ultimi vent’anni. Dal 2004 al 2024, nell’Unione europea nel suo complesso il reddito reale per persona è cresciuto del 22%. Romania +134%, Lituania +95%, Polonia +91%, Malta +90%. C’è chi è partito da molto in basso e ha corso. Poi ci sono i casi speciali: Grecia -5%, Italia -4%. Gli unici due Paesi in cui, dopo vent’anni, il reddito reale delle famiglie è più basso di prima. Il resto del continente ha zoppicato, ma è andato avanti. Noi e i greci, invece, siamo riusciti a trasformare l’Europa della convergenza in un esperimento di divergenza permanente.

Dentro questo quadro, l’Italia è un Paese a due velocità che viaggia con lo stesso motore. La Provincia autonoma di Bolzano, con un tasso di rischio povertà al 5,9%, è tra le regioni più “sicure” socialmente di tutta l’Unione: in pratica, il rischio povertà è sei volte più basso che in Calabria. Non è un refuso, è un rapporto di forze. In totale, cinque regioni italiane – Marche, Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Trento e Bolzano – stanno sotto il 10% di rischio povertà e si accomodano nel salottino delle 28 regioni europee più protette.

A mille chilometri più giù, lo stesso Paese mette in fila regioni che condividono non solo la marginalità, ma la costanza con cui vengono nominate nelle statistiche come “le peggiori d’Europa”. Il che significa una cosa semplice: non sono emergenze, sono stabilmente povere.

Il tasso di rischio povertà, nelle tabelle, sembra una formula asettica: percentuale di persone il cui reddito disponibile è inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. Tradotto in linguaggio umano, vuol dire gente che vive con molto meno di quello che è considerato “normale” nel proprio Paese. Non stiamo parlando della povertà assoluta dei senza dimora, ma di quella fascia sempre più larga che sta sotto la mediana e non riesce a tirare il fiato: famiglie che pagano l’affitto e rinunciano al dentista, single che lavorano a tempo pieno e non vedono una vacanza da anni, pensionati che hanno paura dell’ennesima bolletta.

Nel 2024, il reddito mediano annuo disponibile nell’Ue, misurato in Pps (un’unità che prova ad aggiustare per il potere d’acquisto), è di 21.245 Pps a testa. Più di un quarto di questo reddito, 5.847 Pps, arriva da trasferimenti sociali: pensioni, sussidi, misure di welfare. Significa che senza reti pubbliche una parte enorme della popolazione affonderebbe. E significa anche un’altra cosa: se hai un’area del Paese dove più di un terzo delle persone resta comunque sotto la soglia, vuol dire che i trasferimenti da soli non bastano a correggere l’abisso che separa Nord e Sud.

Non è un errore di calcolo, è la fotografia di un modello. Da una parte territori dove redditi da lavoro, tessuto produttivo e servizi sociali reggono, dall’altra territori dove i trasferimenti tengono in piedi un’economia che fatica, quando va bene, a non scivolare ancora più giù.

C’è poi l’altra faccia di questa geografia della povertà, quella che non entra direttamente nelle tabelle: la fuga. Il Sud che appare come “area a rischio” nelle statistiche è lo stesso Sud che, da anni, viene svuotato di giovani, di laureati, di lavoratori qualificati. Chi può, se ne va: al Nord, all’estero, ovunque ci sia la possibilità di un reddito che non ti condanni al 60% della mediana. Così le regioni che restano in fondo alle classifiche si trasformano lentamente in luoghi dove si concentrano i più fragili: anziani, lavoratori poveri, famiglie senza più reti forti, migranti. La povertà non è solo alto numero nelle tabelle, è bassa capacità di fuggire.

Mentre il Sud viene usato come esempio negativo nelle statistiche europee, c’è un altro pezzo di racconto che non cambia mai: quello che continua a parlare di “recupero del divario”, “strategie per il Mezzogiorno”, “coesione territoriale”. Ogni anno un nuovo piano, un nuovo acronimo, un nuovo fondo. Poi arrivano i numeri e ci dicono che la Calabria è terza in Europa per rischio povertà, che la Campania la tallona, che la Sicilia non molla, che la Puglia e la Sardegna sono stabilmente sopra la media Ue. E che lo stesso Paese capace di difendere Bolzano come campionessa di stabilità non ha trovato, in vent’anni, un modo per evitare che il Mezzogiorno resti parcheggiato nel ruolo di cuscinetto sociale del continente.

La vera domanda non è più perché il Sud “non ce la fa”, ma perché l’Italia nel suo complesso ha accettato di diventare il Paese che, insieme alla Grecia, è riuscito a far scendere il reddito reale delle famiglie mentre quasi tutti gli altri salivano. Il Mezzogiorno è la parte visibile del problema: un laboratorio dove si testano gli effetti di lungo periodo di salari bassi, lavoro nero, infrastrutture assenti, tagli al welfare, precarietà elevata a normalità. Il resto d’Italia è convinto che basti non guardare troppo a Sud per non essere coinvolto nell’esperimento.

I numeri europei, invece, dicono un’altra cosa: quando si accetta che intere regioni possano vivere stabilmente con un terzo della popolazione a rischio povertà, non si sta descrivendo un’anomalia locale. Si sta raccontando il futuro possibile di tutti, solo distribuito in anticipo su una parte del Paese. Il Sud come laboratorio, appunto. Ma di quelli in cui le cavie non sono i topi, sono le persone.

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