Per più di dieci anni il destino degli scomparsi in Siria è rimasto un buio senza appigli. Decine di migliaia di persone arrestate, fatte sparire o uccise durante il regime di Bashar al-Assad – spesso senza che le famiglie avessero una spiegazione, un corpo, un nome scritto da qualche parte – rappresentano ancora oggi la ferita più profonda del Paese.
Con la caduta del vecchio regime e l’insediamento delle nuove autorità, molte famiglie hanno cercato di colmare da sole quel vuoto, arrivando persino a recarsi al cimitero di Najha, vicino a Damasco, per tentare di riconoscere tra le fosse comuni una traccia dei propri cari.
Era un gesto disperato: scavevano con pale improvvisate, sperando in un dettaglio, un oggetto, un indizio minimo. Alla fine hanno capito che era impossibile: i corpi sono stati interrati senza identificazione e oggi nessun reperto può essere attribuito a qualcuno senza un lavoro forense approfondito.
Il numero degli scomparsi è enorme. Secondo il ministro siriano per la gestione delle emergenze e dei disastri, Raed al-Saleh, sono ancora circa 140.000 le persone di cui non si ha notizia. Per anni le famiglie hanno cercato risposte nelle prigioni, soprattutto dopo che alcuni centri di detenzione sono stati aperti durante i primi giorni della transizione politica e oltre 24.000 prigionieri sono stati liberati.
Ma la speranza di ritrovare anche gli altri, quelli svaniti nel nulla, si è rapidamente affievolita: in molti istituti, scavati anche i pavimenti nel tentativo di individuare stanze segrete, non è stato trovato nulla. A quel punto è apparso chiaro ciò che molti sospettavano da tempo: le fosse comuni avrebbero custodito le verità che le carceri non rivelavano.
Negli ultimi mesi le autorità siriane hanno riconosciuto ufficialmente l’esistenza di almeno 60 fosse comuni, ma è probabile che il numero reale sia molto più alto. Il problema ora è un altro: come ricostruire l’identità delle vittime. Il nuovo governo non dispone ancora degli strumenti tecnici necessari e ammette apertamente di aver bisogno dell’aiuto internazionale.

La Commissione per le persone scomparse, istituita dopo il cambio di potere, parla di un processo “lunghissimo” e complesso, che richiederà personale formato, strutture adeguate e laboratori specializzati per l’analisi del DNA.
Per questo Damasco ha iniziato a creare una prima generazione di operatori locali dedicati alla ricerca forense. In collaborazione con la Fondazione di Antropologia Forense del Guatemala – un’organizzazione che porta con sé l’esperienza di un’altra lunga guerra civile e migliaia di desaparecidos – giovani siriani vengono formati alle tecniche di individuazione e recupero delle sepolture.
In un campo alla periferia della capitale, sotto il sole estivo, reclute che in passato hanno perso fratelli, cugini, genitori tra le mani delle milizie, imparano oggi a riconoscere irregolarità del terreno, documentare reperti, proteggere eventuali prove utili a futuri procedimenti giudiziari. La motivazione personale è fortissima: quasi tutti coloro che partecipano all’addestramento hanno almeno un parente ancora disperso.
Questa nuova fase rappresenta il primo tentativo concreto di affrontare la questione degli scomparsi non come un dramma privato, ma come un dossier nazionale. Fino a ora la ricerca era stata lasciata quasi interamente alle famiglie, che si muovevano senza strumenti, senza informazioni, senza garanzie. Ora, almeno sulla carta, c’è un impegno a costruire capacità nazionali stabili, affinché il processo non resti dipendente dagli interventi temporanei delle agenzie internazionali.
Il percorso tuttavia è solo all’inizio. Per riesumare una fossa comune serve un team di specialisti, tempo, sicurezza, risorse. Per dare un nome ai resti servono laboratori del DNA, banche dati affidabili, protocolli condivisi. Per rendere giustizia serve un sistema giudiziario che riconosca i crimini del passato e che non ostacoli – come è accaduto per anni – l’accesso alle informazioni. Nulla di tutto questo potrà essere immediato.
Eppure, per molte famiglie, il solo fatto che lo Stato ammetta la necessità di cercare, di identificare, di restituire i corpi, rappresenta un passo avanti rispetto al muro di silenzio che ha caratterizzato l’era di Assad. È un gesto minimo, ma simbolico: riconoscere che quelle vite non possono essere cancellate, che la verità esiste, che il lutto ha bisogno di un luogo e di un nome.
In una Siria che prova a ridefinirsi dopo quattordici anni di guerra, sarà proprio la gestione degli scomparsi a determinare parte della credibilità del nuovo governo. Senza risposte, nessuna riconciliazione potrà essere reale. Con risposte lente ma trasparenti, forse il Paese potrà almeno iniziare a contare i propri morti e, finalmente, restituisce alle famiglie la possibilità di seppellire i propri cari sapendo chi sono.


