mercoledì, Novembre 26, 2025

La Cina vieta il malumore. Una campagna anti pessimismo

In Cina è arrivata una nuova forma di repressione: quella dell’umore. Non si censurano più soltanto le idee politiche, ma anche le emozioni. La Cyberspace Administration of China ha lanciato una campagna nazionale contro chi diffonde “sentimenti eccessivamente negativi” o “narrazioni disfattiste” come il lavoro non serve, meglio non sposarsi, è inutile faticare. In pratica, è vietato essere stanchi.

La misura – due mesi di “pulizia emotiva” su tutte le piattaforme digitali – è la risposta del potere a un clima che sfugge al controllo della propaganda. L’economia rallenta, il mercato del lavoro soffoca una generazione di laureati, la fiducia nel futuro si assottiglia. Di fronte a un malessere che cresce, il partito non apre un confronto: impone il silenzio. Non è il dissenso a preoccupare Pechino, ma la stanchezza collettiva che rischia di diventare racconto condiviso.

Negli ultimi anni, migliaia di giovani hanno abbandonato la corsa alla produttività e si sono riconosciuti nella filosofia dello “sdraiarsi” (tang ping): vivere con poco, lavorare meno, disinnescare la competizione. Un gesto semplice ma sovversivo, perché nega la logica che tiene insieme l’intero edificio sociale: lavorare, consumare, mostrarsi.
Per il governo, quella lentezza è contagiosa. Per questo sono stati oscurati influencer che parlavano di riduzione dello stress, di solitudine urbana, di precarietà sentimentale. Persino chi analizza le disuguaglianze economiche viene accusato di “venerare l’Occidente”.

“Say Cheese!” by Wootang01 is licensed under CC BY-ND 2.0.

Dietro la retorica della “positività” si nasconde la paura di un virus diverso: la consapevolezza. Se milioni di cittadini iniziano a mettere in dubbio la promessa di benessere che il Partito Comunista ha usato come contratto sociale per decenni, la legittimità stessa del potere vacilla. Così, la tristezza diventa una questione di ordine pubblico.
Weibo e Douyin – le piattaforme più popolari – sospendono migliaia di account, ripuliscono i feed, bloccano parole chiave come “depressione sociale” o “crisi del lavoro”. Scompare il linguaggio della frustrazione, ma resta la frustrazione stessa.

La “campagna contro il pessimismo” racconta più del previsto: il benessere imposto è la nuova forma di controllo. Il regime teme non la rabbia, ma il cinismo; non la protesta, ma l’ironia disillusa che svuota la retorica ufficiale. Eppure la rimozione della negatività è anche un meccanismo che conosciamo bene. Qui da noi prende la forma della retorica motivazionale, del “voler è potere”, dell’imperativo a mostrarsi felici. In Cina è legge, altrove è algoritmo.

La differenza è di grado, non di natura. Là si censura la malinconia; qui la si monetizza. In entrambi i casi, il dolore sociale viene trattato come errore di sistema. Ma la realtà, come sempre, non si corregge spegnendo i commenti. Prima o poi, anche il sorriso di regime si incrina. E il silenzio che rimane fa molto più rumore di qualsiasi post cancellato.

“Smiling security guards” by faungg’s photos is licensed under CC BY-ND 2.0.

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