giovedì, Dicembre 11, 2025

In Campania si vive due anni di meno a causa della povertà

In Campania un neonato ha davanti a sé, in media, quasi due anni di vita in meno rispetto a un neonato che nasce nel resto d’Italia. L’aspettativa di vita alla nascita si ferma a 80,9 anni contro gli 82,7 della media nazionale.

Non è una curiosità statistica, è il risultato di un intreccio preciso tra povertà diffusa, sottofinanziamento della sanità e rinuncia alle cure, ricostruito dal Dossier regionale sulle povertà della Caritas Campania e dai dati ufficiali di Istat, Eurostat e Ministero della Salute.

La fotografia sociale dice che quasi metà dei residenti è in una condizione di vulnerabilità strutturale. Il 43,5% della popolazione campana è classificato a rischio di povertà o esclusione sociale secondo l’indicatore europeo AROPE: nel calcolo non entra solo il reddito, ma anche la bassa intensità lavorativa, la deprivazione materiale e la fragilità abitativa.

È una quota che colloca la Campania tra le aree più esposte d’Europa, in compagnia delle altre regioni meridionali. In questo quadro la povertà non è un segmento minoritario, è l’ambiente di vita quotidiano di milioni di persone.

Quando questo contesto incontra un sistema sanitario sottofinanziato, il risultato è che la salute diventa un campo di diseguaglianza pesante. Il dossier segnala che il 13,5% dei cittadini campani rinuncia a curarsi: più di uno su sette, contro meno di uno su dieci nella media nazionale.

La rinuncia riguarda visite specialistiche, esami diagnostici, terapie: non solo interventi “di lusso”, ma anche prestazioni essenziali che vengono rimandate o cancellate perché il ticket è troppo alto, perché l’ospedale è lontano, perché l’unica alternativa realistica sono strutture private che la famiglia non può permettersi.

È un pezzo della domanda sanitaria che non arriva mai a confronto con l’offerta, e che si traduce in diagnosi tardive, malattie croniche non controllate, peggioramento di quadri clinici che sarebbero gestibili.

Questo si inserisce in un sistema che parte ogni anno con meno risorse. La spesa sanitaria pubblica pro capite è di 1.910 euro, a fronte di una media italiana di 2.230. Sono 320 euro in meno per abitante.

Moltiplicati per l’intera popolazione regionale, fanno un vuoto superiore a 1,7 miliardi di euro l’anno rispetto a una ripartizione uniforme. È un gap strutturale, non un episodio legato a una singola legge di bilancio.

Il meccanismo che porta a questo risultato passa in larga parte dal riparto del Fondo sanitario nazionale. Le risorse vengono distribuite tra le regioni sulla base di una quota capitaria “pesata” per età e altri fattori: dove la popolazione è più anziana, il fabbisogno sanitario stimato è più alto e quindi la quota pro capite cresce; dove la popolazione è più giovane, la quota scende.

La Campania è una delle regioni demograficamente più giovani del Paese e questo, nella formula, si traduce in meno fondi per abitante. Il problema è che la giovinezza anagrafica convive con condizioni sociali che spingono in alto il rischio di malattia: redditi bassi, tassi elevati di disoccupazione e lavoro irregolare, istruzione più bassa, case sovraffollate o di scarsa qualità, aree interne difficili da raggiungere.

La pesatura per età non incorpora questi determinanti sociali della salute. Il risultato concreto è che una regione giovane ma povera riceve meno risorse di regioni più ricche e più anziane, pur avendo bisogni sanitari aggravati dalla povertà.

Le conseguenze si vedono nei numeri di sistema. In Campania i posti letto ospedalieri sono circa 2,7 ogni mille abitanti, contro i 3,2 della media nazionale e i 4,6 dell’Unione europea. La mortalità evitabile, cioè i decessi che potrebbero essere prevenuti con una migliore prevenzione o con cure tempestive ed efficaci, è più alta che nel resto del Paese. Le persone che dichiarano di godere di una salute buona o molto buona sono significativamente meno che altrove.

La sanità privata, nel frattempo, assorbe una fetta crescente della spesa complessiva: la quota di spesa “out of pocket” delle famiglie, cioè pagata direttamente di tasca propria, è più alta della media italiana, con un paradosso evidente. Chi ha redditi medi o alti usa il privato per aggirare le liste d’attesa; chi ha redditi bassi ha due possibilità: indebitar-si o rinunciare.

Il dossier Caritas mostra che questa dinamica non è astratta ma visibile nei Centri di Ascolto delle venti diocesi campane. Crescono le richieste di aiuto per spese sanitarie, ticket, farmaci, visite specialistiche. In molte aree interne l’accesso fisico ai servizi è complicato: strutture distanti, trasporti insufficienti, costi di spostamento non sostenibili per chi vive con 18.500 euro di reddito pro capite contro i 31.000 della media nazionale.

La conseguenza è una sanità a doppia velocità, dove la formalità dell’universalismo convive con una pratica selettiva: chi ha risorse economiche e relazioni attiva percorsi, chi non le ha fa i conti con l’allungamento dei tempi e con la rinuncia.

Dentro questo scenario si capisce perché il divario negli anni di vita resti stabile. Anche quando alcuni indicatori migliorano in valore assoluto, la distanza rispetto al resto del Paese non si chiude. La Campania resta una regione giovane con indicatori di salute da territorio povero.

Il dato sui due anni in meno è la sintesi di milioni di traiettorie individuali che passano per lavori usuranti e precari, per quartieri privi di servizi di prossimità, per prevenzione trascurata, per diagnosi tardive dovute a liste d’attesa e costi che scoraggiano l’accesso.

Il Dossier regionale sulle povertà non si limita a fotografare questo quadro, ma lo collega esplicitamente alle scelte di politica pubblica. Se la regione con uno dei redditi medi più bassi d’Italia, con quasi metà popolazione esposta a rischio povertà o esclusione sociale, riceve ogni anno centinaia di euro in meno di spesa sanitaria pubblica per abitante, il problema non è solo “la povertà in Campania”.

Il problema è come il sistema nazionale definisce il fabbisogno sanitario e distribuisce il diritto alla cura. In questa asimmetria si produce, anno dopo anno, quel margine di vita in meno che i numeri registrano con freddezza ma che per le persone significa vivere non solo meno a lungo, ma anche con meno anni in buona salute.

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