giovedì, Novembre 27, 2025

Il modello danese smentisce la socialdemocrazia securitaria

La Danimarca è stata per anni indicata come il laboratorio più avanzato della socialdemocrazia europea. Un luogo dove, si diceva, la sinistra aveva trovato la formula magica per tenere insieme welfare generoso, coesione sociale e controllo severo dell’immigrazione.

Il risultato delle ultime elezioni locali ha incrinato questa narrazione: i socialdemocratici hanno perso terreno in tutto il Paese e, per la prima volta in oltre un secolo, hanno dovuto cedere Copenaghen. La capitale danese, che per decenni è stata la vetrina del loro modello, oggi è governata da una sinistra diversa: più verde, più sociale, più coerente con i temi che hanno animato le nuove generazioni urbane.

La caduta dei socialdemocratici non arriva all’improvviso. È il prodotto di dieci anni di trasformazione identitaria. Per difendere il welfare, dicono i loro dirigenti, è necessario irrigidire le politiche migratorie. Da questo assunto è nata una delle linee più dure d’Europa: l’obiettivo dichiarato di arrivare a “zero richiedenti asilo”.

E poi i piani di esternalizzazione delle domande d’asilo in Rwanda, la riforma che rende temporanea la protezione dei rifugiati e ne facilita la revoca, le cosiddette ghetto laws che classificano i quartieri popolari in base anche all’origine non occidentale dei residenti. Tutto presentato come realismo progressista: un po’ di durezza per proteggere il modello sociale.

Il problema è che questo realismo si è progressivamente sovrapposto alla retorica della destra, fino a confondersi con essa. Il messaggio implicito – per avere diritti bisogna appartenere culturalmente alla nazione – ha prodotto l’effetto opposto a quello annunciato: ha spostato il baricentro del dibattito pubblico a destra, senza fermare né la crescita dei populisti né il riarmo ideologico dei liberali più duri.

La destra radicale non si è ritirata, come prometteva il modello danese; ha semplicemente trovato nuovi interpreti e nuove forme. Dove i socialdemocratici hanno indurito il linguaggio, i partiti nati su quel linguaggio sono apparsi più autentici. E infatti sono risaliti, nelle aree rurali e nelle periferie, intercettando paure e risentimenti che la sinistra di governo non è più stata in grado di decifrare.

Ma la perdita più significativa non è quella verso destra. È lo sfilacciamento del fronte progressista urbano: giovani, lavoratori qualificati dei servizi, famiglie con background migratorio, ceti creativi, studenti e precari. Quella parte di società che vive i costi dell’abitare, i problemi di mobilità, la crisi climatica e il deterioramento dei servizi pubblici come questioni immediate e materiali.

È lì che, negli ultimi anni, la sinistra alternativa ha costruito credibilità. Non rinunciando ai diritti, ma riconnettendoli alla vita quotidiana: case popolari, trasporto pubblico, sanità territoriale, politiche climatiche non punitive, diritti sociali uguali per tutti. A Copenaghen, questa proposta ha vinto perché era la sola a parlare una lingua coerente con la città reale.

Il voto danese, letto in questo quadro, non racconta la punizione di un partito, ma la crisi di un’idea di sinistra che ha creduto di potersi salvare adattandosi alla cornice della destra. L’idea secondo cui la protezione sociale deve essere meritata, e il merito coincide con l’appartenenza culturale, finisce per disarticolare proprio il principio che dovrebbe sostenere un welfare universale: la solidarietà come diritto, non come concessione. Quando la sinistra accetta questa logica, non solo perde elettori, ma indebolisce la propria stessa ragione d’esistere.

La lezione che arriva dalla Danimarca riguarda quindi tutta la sinistra europea, e tocca anche il dibattito italiano. Da anni si ripete che “fare come Frederiksen” potrebbe essere la strada per riconquistare il voto popolare. Ma la realtà dimostra che non è così: la sinistra che prova a imitare la destra legittima la destra e smarrisce se stessa; la sinistra che resta piattaforma di diritti, tutela sociale e uguaglianza trova ancora spazio, soprattutto dove le condizioni materiali sono più dure.

Non è una questione di identità culturale, né di purismo politico. È un dato concreto: quando le persone vivono precarietà, casa inaccessibile, servizi che arretrano, aspettano risposte che parlino di vita quotidiana, non la conferma di un immaginario securitario già ampiamente presidiato dalla destra.

Per questo il voto danese pesa oltre i confini del Nord Europa: mostra che, anche in un Paese considerato modello, la sinistra che ha scelto la strada dell’esclusione come prezzo per il consenso ha perso da entrambe le parti. E che, al contrario, una sinistra che non rinuncia alla propria funzione sociale può ancora essere credibile, proprio dove le contraddizioni sono più visibili.

La Danimarca non è un’eccezione virtuosa né un avvertimento astratto. È un promemoria concreto: il welfare non vive di recinti, la sicurezza non nasce da confini più duri, e una sinistra che smette di essere sé stessa non conquista nuovi voti – perde i suoi.

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