giovedì, Novembre 27, 2025

Ultra-processati: profitti alle stelle, salute a pezzi

Nei supermercati il paesaggio è questo: scatole che urlano “protein”, barrette “fit”, cereali con unicorni, bevande fluorescenti, pasti pronti da tre minuti di microonde. C’è più brand che cibo, più chimica che cucina. Per anni ce la siamo raccontata così: non sarà il massimo, ma è comunque cibo.

La nuova serie di studi pubblicata su The Lancet leva via anche questa foglia di fico: gli alimenti ultra-processati non sono “cibo un po’ peggiore”, sono una categoria a parte, e stanno facendo danni in tutto il corpo umano.

Gli scienziati li chiamano UPF, ultra-processed foods. Dietro c’è la classificazione NOVA, quella che divide gli alimenti in quattro gruppi: dal fresco o minimamente lavorato (frutta, verdura, legumi, carne semplicemente tagliata) fino al quarto livello, quello dei prodotti industriali fatti con ingredienti smontati e rimontati in fabbrica.

Amidi modificati, grassi raffinati, zuccheri, proteine isolate, emulsionanti, coloranti, aromi “gusto fragola” che una fragola vera non l’hanno mai vista. È tutto quello che, leggendo l’etichetta, assomiglia più a un catalogo di laboratorio che a una ricetta.

La serie su The Lancet ha messo insieme 104 studi di lungo periodo. In 92 casi su 104, chi consuma più UPF ha un rischio più alto di sviluppare almeno una malattia cronica seria o di morire prima: obesità, diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari, diversi tumori, depressione, problemi renali e intestinali.

Non perché questi prodotti siano veleno immediato, ma perché cambiano la dieta in profondità: più calorie e meno nutrienti, più infiammazione, più squilibri ormonali, un microbiota intestinale che va fuori strada. Uno degli autori riassume così: gli esseri umani non sono biologicamente adattati a mangiare queste cose in modo massiccio e continuo.

Gli stessi ricercatori riconoscono i limiti: servono più studi sperimentali, non tutti gli alimenti della categoria sono uguali, il meccanismo preciso non è ancora completamente chiarito. Ma aggiungono un punto che nel dibattito conta più di tutto il resto: con le prove che abbiamo, non ha senso continuare a fare finta di niente. Rimandare le politiche in attesa della “certezza assoluta” significa accettare che il laboratorio, nel frattempo, siamo noi.

Il problema non è solo sanitario, è politico. In molti Paesi ricchi, come Regno Unito e Stati Uniti, più della metà delle calorie quotidiane arriva già dagli ultra-processati. Tra i giovani, i poveri e chi vive in quartieri marginali, la quota arriva tranquillamente al 70–80%.

Anche in America Latina, Africa e Asia la curva è in salita: dove c’erano piatti cucinati, legumi, cereali, frutta e verdura, arrivano snack confezionati, bibite zuccherate, cibo da scaldare. Non è un cambiamento neutro: il cibo vero non scompare perché a qualcuno improvvisamente va di mangiare solo patatine, scompare perché è più caro, più scomodo, meno pubblicizzato.

La serie su The Lancet insiste su questo punto: non è la “scelta individuale” a guidare l’aumento dell’UPF, sono le multinazionali. Servono prodotti che costino poco da produrre, stiano a lungo sugli scaffali, siano facilmente trasportabili, diano dipendenza sensoriale, permettano margini alti.

https://www.thelancet.com/series-do/ultra-processed-food

Il resto viene di conseguenza: marketing aggressivo, soprattutto sui bambini; sponsorizzazioni sportive; influencer che vendono biscotti e bibite come se fossero stile di vita; lobbying per annacquare ogni proposta di regolamentazione troppo seria.

Quando qualcuno prova a mettere paletti, la risposta è sempre la stessa, imparata dal copione del tabacco: la categoria è mal definita, gli studi non dimostrano la causa, alcuni prodotti sono “anche sani”, il problema è che la gente non sa regolarsi.

Se proprio il vento gira, si offrono compromessi: un po’ meno zucchero, un po’ meno sale, una vitamina aggiunta, una confezione verde con foglioline stilizzate. L’importante è che nessuno tocchi il modello di business, cioè il dominio sugli scaffali e sulle vite quotidiane.

Gli autori propongono l’ovvio, che però oggi sembra rivoluzionario: etichette chiare anche sul fatto di essere ultra-processati, non solo sui grammi di zucchero; divieto o forti limiti al marketing verso i bambini; esclusione degli UPF da scuole e ospedali; spazio ridotto per questi prodotti nei supermercati; programmi pubblici che rimettano al centro il cibo fresco, come ha iniziato a fare il Brasile nelle mense scolastiche, dove entro il 2026 il 90% del cibo dovrà essere fresco o minimamente lavorato. Non stiamo parlando di proibire le patatine, stiamo parlando di smettere di organizzare l’intera dieta intorno a loro.

In mezzo ci siamo noi, e il solito discorso sulla “responsabilità personale”. Il frame dominante è sempre quello: mangiamo male perché siamo pigri, golosi, incapaci di disciplina. È una comoda scorciatoia che sposta la colpa dall’industria all’individuo.

Se vivi in un quartiere dove l’unico negozio sotto casa è un minimarket pieno di snack e bibite, se lavori con turni impossibili e l’unico tempo per mangiare è una pausa davanti al distributore, la tua “libertà di scelta” è una barzelletta. Chi ha soldi, tempo, cucine e mercato rionale sotto casa può tirarsene fuori; tutti gli altri nuotano dove li hanno messi.

La parte interessante, per un giornale come il nostro, è che una delle riviste mediche più autorevoli al mondo sta di fatto dicendo al pianeta: basta raccontare la storia dell’UPF come se fosse una parentesi fast food in una dieta per il resto sana. Non è una parentesi, è l’impianto. E finché continuiamo a ridurla a “mancanza di volontà”, facciamo esattamente il gioco di chi su quel sistema costruisce i bilanci.

La verità brutale è che il cibo ultra-processato è perfetto per l’economia contemporanea e pessimo per i corpi che la abitano. È flessibile, scalabile, redditizio. Si adatta all’idea che il tempo di cucinare sia un lusso, che il gusto vada standardizzato, che il rapporto con il cibo passi più dalla marca che dalla terra. È il prodotto ideale di un capitalismo che ha deciso che, tra la salute delle persone e la salute delle trimestrali, la seconda viene prima.

Non c’è bisogno di demonizzare chi apre un pacchetto di biscotti o compra un surgelato stanco la sera. Qui non si tratta della colpa individuale di chi mangia, ma della responsabilità collettiva di chi ha lasciato che il cibo si trasformasse in una sottospecie industriale a cui siamo “non biologicamente adattati”.

Gli studi di The Lancet non sono una sentenza definitiva, ma un segnale d’allarme forte: continuare a fingere che basti un po’ di jogging per compensare scaffali pieni di ultra-processato è un lusso che non possiamo più permetterci.

Cibo sano – “We’re now in the era of #DiabetesReversal, why don’t more doctors know? Tip: Ground beef is NOVA classification Group 1: Unprocessed or minimally processed foods. This beef is grass fed, grass finished, pasture raised, and includes organ meat. Artificial” by tedeytan is licensed under CC BY-SA 2.0.

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